Texto crítico por Mônica Hoff

PIVÔ PESQUISA — 2024


Três esculturas reivindicam seu passado. Uma instalação prepara seus nomes. Há braços. Há mãos. E objetos. Ao centro, um corpo flutua sem nostalgia. Sob seu eixo, fragmentos de ontem e hoje se encontram e se chocam freneticamente. Tudo é muito familiar e muito raro no trabalho de Caroline Ricca Lee.

“Deixa eu começar de novo”—como diria Ocean Vuong–, tudo é muito familiar e muito raro no trabalho de Caroline Ricca Lee. Cada objeto, corte, fissura, amarração, detalhe faz parte de uma combinatória complexa de memórias e questionamentos que se misturam e fundem tal como as roupas dos dias sobre uma poltrona, que também está presente. Nada é reto, uniforme ou linear. Não há lugar para frivolidades. É nos nós –da madeira, do tecido, do tempo, dos conceitos, da memória– que ele encontra precisão.

Através de esculturas, textos, vídeo, performance e instalações, Ricca Lee reclama um corpo ancestral e as narrativas da diáspora asiática no Brasil. Entre o sonho e o trauma, numa espécie de ficção especulativa da memória, que toma como base epistemologias decoloniais, queer e feministas, diferentes materialidades e temporalidades entram em cena provocando deslocamentos, aparições e reencontros. Material e fantasmagoricamente estridente, seu trabalho redimensiona a noção de nostalgia, fazendo dela um gesto incisivo sobre o presente, tal como uma “lâmina que se afia cortando”, como diria mais uma vez Vuong.

Durante sua residência no Pivô, Ricca Lee dedica-se atenta e demoradamente à sua pesquisa, abordando questões de um universo particular que é também geopolítico, fazendo da linguagem instrumento de torção de discursos e narrativas que lhe tocam íntima e historicamente. Aprofunda-se corajosamente em sua prática, reassentando questões centrais do seu trabalho ao mesmo tempo em que habita o frescor daquilo que ainda não tem nome. 

1¹ VUONG, Ocean. “Night sky with exit wounds”, Canyon Press, 2016.
Critical essay by Mônica Hoff

PIVÔ PESQUISA — 2024

Three sculptures reclaim their past. An installation prepares their names. There are arms. There are hands. And objects. In the center, a body floats without nostalgia. Beneath it, fragments of yesterday and now meet and collide with frantically. Everything feels both deeply familiar and strikingly rare in Caroline Ricca Lee’s work.

"Let me begin again"—as Ocean Vuong might say—everything feels both deeply familiar and strikingly rare in Caroline Ricca Lee's work. Every object, cut, fissure, binding, and detail is part of a complex combination of memories and inquiries that blend and merge like daily clothes draped on a chair — a chair which is also present. Nothing is straight, uniform, or linear. There is no space for frivolity. It is within the knots — of wood, fabric, time, concepts, and memory — that your work finds precision.

Through sculpture, text, video, performance, and installation, Ricca reclaims an ancestral body and the narratives of the Asian diaspora in Brazil. Between dream and trauma, in a kind of speculative memory fiction rooted in decolonial, queer, and feminist epistemologies, diverse materials and temporalities come into play, provoking shifts, apparitions, and reunions. Material and phantasmagorically shrill, their work reshapes a notion of nostalgia, turning it into a piercing gesture toward the present, like a "blade sharpened by cutting," as Vuong would say again.

During your residency at Pivô, Lee devotes attention and length to their research, addressing questions within a unique universe that is also geopolitical, using language as a tool to twist narratives and discourses that resonate both intimately and historically. Delves courageously into your own practice, reaffirming the central issues of the work while inhabiting the freshness of what remains unnamed.

1¹ VUONG, Ocean. “Night sky with exit wounds”, Canyon Press, 2016.




Pivô Pesquisa 2024, Campo Aberto— Foto: Juliana Sampaio



Texto crítico por Gianluca Collica

FONDAZIONE OELLE MEDITERRANEO ANTICO — 2024


Siamo ormai ampiamenti abituati a disciplinare il concetto di bello, dal perdere coscienza del perché siamo respinti o affascinati da un’opera d’arte. I parametri di giudizio introdotti dal Sistema dell’Arte, infatti, spesso sovrastano e ci allontanano da quanto l’opera è in sé, a favore di una fascinazione meno personale, afferente più alla sfera pubblica, quale è appunto quella offerta dal sistema stesso.

A riguardo i lavori della Caroline Ricca Lee sono un importante banco di prova per saggiare il proprio senso critico rispetto a quanto la sua opera è in grado di restituire a ciascun. La ricerca, agisce su un piano intimo e innesca un dialogo che dilata i tempi di osservazione del processo che passo dopo passo mette a nudo i valori più nascosti, diversi e distanti tra loro, ma che nel combinarsi svelano lo spessore della poetica di questa persona artisticamente apolide.

CAROLINE RICCA LEE (nata nel 1990 in Brasile con eredità sino-giapponesi) attraversa culture diverse tra loro, spesso descritte da stereotipi che banalizzano le profonde vibrazioni della sensibilità di questa persona che opera con naturalezza, libera da ogni tipo di consuetudine, vincolo o suggerimento, se si vuole addolcire il concetto, esterno alla sua sfera sensibile.

“In Brasile la reputano un artista orientale, in oriente una artista brasiliana. E noi europei?” suonava più o meno così una domanda nella mia mente durante la sua residenza in Sicilia promossa dalla Fondazione Oelle. Cercare una propria specificità, avere una propria collocazione in una comunità (sociale o artistica che sia) è certamente una legittima aspirazione ed è chiaro che la paura di non essere compresi esprime un profondo disagio. Ma io aggiungo è proprio in tale frustrazione, in questa terra di nessuno, in questo malessere, che la Ricca Lee trova nutrimento formale e la capacità di aprirsi a nuove narrazioni.

Così il colore nelle sue opere raccoglie in sé il tono di un popolo corruttibile dalla gioia, poli-cronico, dotato di jeitinho, quel connubio tra intelligenza, creatività e improvvisazione velato dalla sfrenatezza e l’allegria.

E la sua attenzione alla forma esprime gentilezza, tatto, considerazione per l’altro; il corpo dell’opera, memoria di regole ancestrali e confronto con semplici esperienze quotidiane, formula scenari intimi e palesi anche negli animi più freddi.
E come trascurare la sua dedizione al lavoro che la rende operosa e ingorda di conoscenza, il suo attaccamento alla famiglia e il rapporto con le proprie radici che ancorano la sua poetica a questioni identitarie di rara sensibilità. Banalizzando potrei dire che la chiassosa fragilità della cultura brasiliana, si mescola con l’austerità asiatica, sullo sfondo di un mondo che nella operosità indefessa trova la forza per elevarsi e ad aprirsi a nuove esperienze. 

Ricca Lee ha attraversato la Sicilia in lungo e in largo, dalla città ai piedi dell’Etna fin la sua cima, dalla pratica quotidiana di una città d’arte come Ficarra, all’opulenza colta e consumata di una capitale come Palermo, fino al Sud più estremo dove la luce rimanda a scenari di un continente che spesso dimentichiamo trovarsi poche decine di miglia più in basso. Nuove memorie nuove vibrazioni che rimodulano la forma e arricchiscono i contenuti di sfumature nuove. Un’artista che nella sua libertà di assemblare memorie arricchisce i suoi marchingegni percettivi, generosi di ogni sorta di macchinazione in grado calamitare l’attenzione, stizzire per poi, inesorabilmente e indelebilmente, stregare (conquistare).
Critical essay by Gianluca Collica

FONDAZIONE OELLE MEDITERRANEO ANTICO — 2024

We are now widely accustomed to codifying the concept of beauty, to the point that we lose awareness of why we are repelled by or fascinated with a work of art. The parameters of judgment introduced by the Art System often overshadow and distance us from what the work is in itself, favoring a less personal enchantment that leans toward the public sphere — the very fascination the system offers.

In this respect, Caroline Ricca Lee’s works present a significant testing ground to engage our critical senses with what their work can offer each of us individually. Their research operates on an intimate level, sparking a dialogue that expands the time needed to observe a process that, step by step, reveals hidden values, varied and distant from one another, but that, when combined, unveil the depth of a poetic approach, artistically free from national borders.

CAROLINE RICCA LEE (born in Brazil in 1990 with Sino-Japanese heritage) crosses through diverse cultures, often represented by stereotypes that trivialize the profound vibrations of their sensitivity. Ricca's work naturally, free from any type of custom, restriction, or suggestion — or, to soften the idea, untouched by external influences outside their sensitive sphere.

“In Brazil, the artist is seen as an Eastern artist; in the East, as a Brazilian. And we Europeans?” Such a question resonated in my mind during the residency in Sicily, fully funded by the Fondazione Oelle. Seeking one’s uniqueness, finding one’s place in a community (social or artistic) is certainly a legitimate aspiration, and it is clear that the fear of not being understood reveals a deep discomfort. But I wo
uld add: it is precisely in this frustration, in this no-man’s land, in this unease, that Ricca Lee finds the formal nourishment and capacity to open themself to new narratives.

Thus, the color in their works embodies the tone of a people moved by joy, poly-chronic, imbued with jeitinho, that blend of intelligence, creativity, and improvisation veiled by boundless energy and cheerfulness. Their attention to form expresses kindness, tact, and consideration for others; the body of their work, steeped in ancestral rules and simple daily experiences, formulates intimate scenarios that become apparent even in the coldest spirits.

And we cannot overlook the dedication to work, which makes them diligent and eager for knowledge, nor their connection to family and roots, anchoring a poetic vision to identity issues of rare sensitivity. In simplistic terms, one could say that the vibrant fragility of Brazilian culture mingles with Asian austerity, set against a backdrop of indefatigable industriousness that provides the strength to rise and open up to new experiences.

Ricca Lee traveled across Sicily from the city at the foot of Mount Etna to its summit, from the daily life of an art city like Ficarra to the cultivated, refined opulence of a capital like Palermo, and even to the southernmost tip, where the light conjures images of a continent we often forget lies just a few dozen miles further south.

New memories, new vibrations
reshape the artist view and enrich their content with new hues. As an artist, the freedom to assemble memories enriches their perceptive machinery, one generous with every sort of contraption capable of capturing attention, unsettling, only to, inescapably and indelibly, bewitch and win over its audience.


"Echoes", Artissima Fair 2024— Foto: Wallace Domingues


Texto crítico por Diane Lima

31ª PROGRAMA DE EXPOSIÇÕES CCSP — 2021



Poderíamos dizer que é de tecidos e tessituras, moldes e filamentos que se constrói a prática artística de Caroline Ricca Lee se junto com estas estratégias e materialidade não estivesse diante de nós, o corpo.

Dotado de memória, este se refaz entre especulações daquilo que não foi alcançado pelo dito, mas que numa coreografia circular, se enuncia com seus vestígios em bordados, fotografias de arquivo e nas muitas máscaras que nos vestem como lugares tradicionais de pertencimento, deslocamento e conflito.

Corporificando tais experiências com o têxtil e o vestuário, Lee que é da terceira geração de imigrantes chineses e também da quarta geração de imigrantes japoneses, costura e expurga o atrito permanente das memórias marcadas pela guerra Sino-Japonesa e seus inúmeros traumas coloniais na exposição "terra/MÃE: trânsito de memórias e corpos-território em desterritório".

Trazendo o título que deriva da performance de longa duração terra/MÃE (2021) em que veste as roupas de familiares desconhecidos, no 31ª Programa de Exposições 2021 do Centro Cultural São Paulo, Lee retoma, amplia e remodela o corpo no espaço através de uma instalação site-specific composta por esculturas inéditas de tecido, vídeos, além de objetos e esculturas de cerâmica em alta temperatura.

Entre pernas e braços, bustos e rostos, seus trabalhos parecem nos fazer voltar às incansáveis questões que nos abre Saidyia Hartman sobre os arquivos da escravidão, que se não encontra correspondência direta à experiência de sua ancestralidade asiática, são fundamentais para nos ajudar a pensar os imbricamentos entre memória, arquivo e o drama daqueles e daquelas que viveram um relacionamento íntimo com a morte.

Como podemos ler nas linhas e entrelinhas de suas palavras, é desse modo que a sua prática artística questiona "como a homogeneização de etnias asiáticas é uma construção social com antecedentes na história colonial, quando a simplificação de corpos e identidades opera como instrumento para a assimilação de um povo ou indivíduo". Ainda segundo os seus pensamentos, "Em outros termos, é necessária a visão de como a Ásia abrange diferentes raças, etnias e culturas. Mas apesar desta pluralidade, continuamente o imaginário que acessamos sobre o território asiático, seus nacionais e descendentes, parte de repertórios inundados em eurocentrismo, discriminação racial e misoginia".

Assim como a memória, a peça se refaz mais uma vez. Seja saudando Aquelas que vieram antes de mim, título de uma obra de 2020 que reúne técnicas variadas como costura à máquina e pastel seco ou fazendo referência às histórias da oralidade em Mandíbula (2020), Lee engatinha nos primeiros saltos para percorrer paisagens diaspóricas em que o debate da racialidade no continente asiático se apresenta como um disparador para pensarmos trânsitos, migrações, esquecimentos e seus violentos apagamentos. Questões que aparecem ainda em Membros Fantasmas, título de um outro trabalho de 2019 em que fotografias, documentos de imigração e identidade de familiares constroem um meta-corpo com 50 ressonâncias e radiografias: "relaciono a doença genética hereditária do tecido conjuntivo que carrego e a síndrome de membro fantasma, à toda memória trazida em diáspora que não vemos, mas podemos sentir".

A problemática sobre como um corpo não-binário avança no uso inventivo da linguagem também aparece nas sobreposições que Lee mobiliza para a construção de sua narrativa incontornavelmente fragmentada e fronteiriça, em que identidade de gênero e assuntos como famílias de escolha dentro de uma vivência queer se tornam modos determinantes em suas composições.

As perguntas de Hartman então, são as mesmas que deixamos como uma resposta aos diálogos cosidos com Lee, quando roupas e cerâmicas esmaltadas performam nas esculturas alinhavadas pela memória do corpo e pelas dobradiças do tempo: "como a narrativa pode encarnar a vida em palavras e, ao mesmo tempo, respeitar o que não podemos saber? (...) Ou é a narração sua própria dádiva e seu próprio fim, isto é, tudo que é realizável quando a superação do passado e a redenção dos mortos não o são? E, de qualquer forma, o que as histórias tornam possível? Um jeito de viver no mundo no rescaldo da catástrofe e da devastação? Uma casa no mundo para o ser [self] mutilado e violado? Para quem - para nós ou para elas?"¹

Se sabemos como nos sinaliza Hartman que não é mais suficiente expor o escândalo, Lee parece aceitar o desafio de continuar especulando como seria possível gerar um conjunto diferente de descrições a partir do seu corpo-arquivo.

1¹ HARTMAN, Saidiya. “Vênus em dois atos”. In: Revista ECO-Pós (Dossiê Crise, Feminismo e Comunicação), v. 23, n. 3, 2020, p.16. Disponível em https://revistaecopos.eco.ufrj.br/eco_pos/article/view/27640. 2021
Critical essay by Diane Lima

31ª CCSP EXHIBITION PROGRAM — 2021


We might consider that the artistic practice of Caroline Ricca Lee is constructed from fabrics and weavings, molds and filaments, unless, in addition to these strategies and materialities, we were faced with a body.

Endowed with memory, the body remakes to itself among speculations of what has not been reached by the spoken word, yet in a circular choreography, enunciates their own remains in embroidery, archival photographs, and the many masks that dress all of us as traditional places of belonging, displacement, and conflict.

Embodying such experiences with textiles and clothing, Lee, who is a third-generation Chinese immigrant and also a fourth-generation Japanese immigrant, sews and purges the permanent friction of memories marked by the Sino-Japanese war and the many colonial traumas at the exhibition "MOTHER/land: transit of memories and bodies-territories in deterritory".

Bearing a title that derives from the performance terra/MÃE (2021) in which the artist wears clothes of unknown relatives, at the 31st Exhibition Program 2021 of Centro Cultural São Paulo, Lee reclaims, expands, and remodels the body in space through a site-specific installation composed of previously unseen sculptures made of fabric, videos, and high-temperature ceramic objects and sculptures.

Among legs and arms, busts and faces, their works remind us of Saidyia Hartman's relentless questions about the archives of slavery, in which, although not directly related to the experience of Lee's Asian ancestry, are fundamental in helping us to think about the intertwining of memory, archives, and the drama of those who have lived an intimate relationship with death.

As we may read between the lines of they words, this is how the artist's practice interrogates "how the homogenization of Asian ethnicities is a social construction with antecedents in colonial history, when the simplification of bodies and identities operates as an instrument for the assimilation of a population or an individual". Also according to Lee's reflections, "In other terms, it's necessary to realize how Asia embraces different races, ethnicities, and cultures. But despite this plurality, continually the imagination we access about the Asian territory, nationals and descendants, departs from repertoires flooded with Eurocentrism, racial discrimination, and misogyny".

Similarly to memory, the act remakes over and over again. Whether saluting Those who walked before me, title of a work from 2020 that combines varied techniques such as machine sewing and dry pastel, or making reference to the histories of orality in Jaw (2020), Lee crawls in the first leaps to go through diasporic landscapes in which the racial debate on the Asian continent presents as a trigger to think about transits, migrations, forgetfulness, and violent erasures. Questions that also appear in Ghost Limbs, title of another 2019's work in which photographs, immigration documents, and family members identities construct a meta-body with 50 MRI's and x-rays: "I connect the inherited connective tissue genetic disease I bear and the ghost limb syndrome, to every memory brought in diaspora that we do not see, but we can feel".

The questioning of how a non-binary body moves forward in the inventive use of language also appears in the layers Lee mobilizes for the construction of what is an unavoidably fragmented and frontier narrative, in which gender identity and issues such as choosing families within a queer experience become determining ways in their compositions.

Hartman's inquiries, therefore, are the same ones we left as an answer to the dialogues sewn with Lee, when clothes and glazed ceramics perform in sculptures woven by the memory of a body and the hinges of time: " How can narrative embody life in words and at the same time respect what we cannot know? (...) Or is narration its own gift and its own end, that is, all that is realizable when overcoming the past and redeeming the dead are not? And what do stories afford anyway? A way of living in the world in the aftermath of catastrophe and devastation? A home in the world for the mutilated and violated [self]? For whom—for us or for them?"²

Although we know as Hartman points out that it is no longer enough to expose the scandal, Lee seems to accept the challenge to continue speculating how it would be possible to generate a different set of descriptions from their own body-archive.

² HARTMAN, Saidiya. "Venus in Two Acts". Small Axe 1 June 2008; 12 (2): 1–14. doi: https://doi.org/10.1215/-12-2-1.




31 Programa de Exposições CCSP, individual simultânea— Foto: Wallace Domingues